Premessa
Credo che i racconti di viaggio dovrebbero essere prima di tutto utili a chi ti sta ascoltando o leggendo. La stessa utilità che vorresti dalle recensioni di Tripadvisor: non le digressioni compiaciute del signor Mario sull’arte di impiattare, non l’elenco delle nevrosi e delle ossessioni della signora Lucia. Solo capire come si mangia, che atmosfera hai attorno mentre mangi e quanto questa atmosfera condizioni il prezzo di un banale piatto di spaghetti. Racconti utili, ad uso dell’umanità. Voglio dare le risposte alle domande che io stesso facevo prima di partire a chi già c’era stato: ovvero, perché quel posto dovrebbe cambiarmi la vita? Prima di cominciare a scrivere, vado appunto su Tripadvisor – per controllare che non ci sia una pagina di recensione all’India intera, con magari un “top comment” in cima che dice tutto quello che c’è da sapere: mi fermerei qui e mi limiterei a mettere un bel link.
La pagina c’è, la risposta no. C’è però la domanda: in cima alle più frequenti, di nuovo “ma perché andare in India?”
I Beatles sono stati forse i primi a tornare dall’India e fartelo pesare. C’è chi narra la loro storia mettendo l’India in mezzo, vedendola come il varco verso nuove regioni dello spirito (e del songwriting). Uguale uguale ai racconti del vostro coinquilino tornato da due settimane in Rahjastan – anche se lui fa ingegneria. E’ davvero così semplice? La verità costa solo 450 euro a/r prenotando con moderato anticipo? Il senso della vita sembra distribuito nel mondo come il petrolio – a chiazze. Nessuno torna dal Belgio profondamente cambiato. Quindi ho deciso di andare a controllare.

Un volo di 9 ore per Mumbai e da lì un treno per il Sud. Tre settimane a disposizione, cinque libri nello zaino. Mentre mi imbarcavo non avevo idea di che giro avrei fatto, quello detto ai miei cari era in balia dell’improvvisazione come lo erano le mie interrogazioni di francese. Mentre scorrevo i film per il viaggio incastrati nel sedile davanti, la mia immaginazione produceva immagini contorte, anche perché tutte le testimonianze raccolte toccavano temi come il traffico orribile, la diarrea, le truffe e, nonostante tutto, l’irresistibile voglia di tornarci. Amo l’ignoto e l’avventura, amo persino alcuni disagi – ma quando sono in posti con un traffico orribile, rivendico almeno il mio diritto a non avere la diarrea (come a Milano, ad esempio). Decollo. Passo tre settimane in India. Ritorno, lascio depositare i pensieri e – sorpresa – eccomi qui anch’io a parlare del mio viaggio in India.

A meno che non prendiate tre voli diversi per poi paracadutarvi direttamente sul vostro resort, è molto probabile che al vostro arrivo in India dobbiate affrontare una grande città. A me è appunto toccata Mumbai – Bombay per i nostalgici. Mi chiedo dopo averla vista: è una brutta città? Sì lo è. Poi penso a cosa intendo con “brutta”, penso a una singola cosa nel mondo che trovo profondamente brutta, per paragonarla. Mi vengono in mente quei terribili render senza ombre che accompagnano le pubblicità di nuovi complessi immobiliari nell’hinterland o il restyling di una stazione della metropolitana. Mumbai è così brutta?No, non è così brutta. E anzi, di quei render mortiferi è proprio la nemesi – è il brulicare della vita (animali, macchine, uomini) in una sorta di costante grand finale avvolto nella polvere. Potenzialmente, un inferno. Un inferno funzionante però, e in rapida espansione: esattamente come da noi, il movimento dalle campagne verso la città (e nel sud dell’India, Mumbai è LA città) è inarrestabile.
Al netto dei pro e dei contro, l’uomo sembra preferire la vita negli alveari – per quanto cadenti, sporchi o affollati siano – alla vita, isolata e salubre, in campagna. Ecco forse perché ha senso andare a Mumbai, semplicemente perché è ciò verso cui l’uomo sembra tendere: il formicaio, la bolgia, la connessione costante e imprevedibile con altri milioni di persone, anche se ciò può voler dire vivere su un marciapiede per il resto della tua vita. Dalle nostre parti, finire a vivere sul marciapiede è un poco più difficile, ma il meccanismo delle masse è lo stesso – abbandoniamo monti e colline per ritrovarci belli stretti su una metropolitana, diretti esausti a fine giornata verso i nostri 50mq di finto parquet. Mumbai ti ricorda questa grande verità con la massima sincerità, il contrario dei render appunto. Dato che si era in cerca del senso della vita, eccone un buon pezzo: gli uomini, sopra ad ogni cosa, vogliono stare assieme. Appurato ciò, scappo dalla città per andare nella giungla (che in India spesso corrisponde alla nostra campagna) per vedere se stiamo semplicemente sbagliando strada tutti quanti o se, in fondo in fondo, la natura è nostra nemica.

Mettendo per un attimo da parte l’annoso problema del lavoro e tutte le problematiche che lo riguardano, mi chiedo spesso cosa mi serva davvero per vivere. Semplificando, mi dico cibo, acqua, un tetto per quando piove, vestiti e coperte per quando fa freddo. Oltre, entriamo in una zona grigia dove le inclinazioni personali la fanno da padrone – e ciò che per uno è indispensabile per l’altro è superfluo, che si parli di bei vestiti, sigarette, accesso a internet, shampoo, libri o un letto comodo. Stare nella giungla, o più prosaicamente nell’India rurale, è un ottimo modo per rendersi conto cosa sia per noi costitutivo e cosa accessorio. Dalla nostra grassa Europa, ci affacciamo sul resto del mondo chiedendoci come facciano tanti sfortunati a tirare avanti. Nel contempo, incolonnati in tangenziale per il quinto giorno consecutivo, veniamo sfiorati da analoghi dubbi su come stiamo passando il tempo su questo pianeta. Nelle campagne del Karnataka, lo sfaccettato stato dell’India sud-occidentale che ho esplorato per due settimane (anche grazie ai temibili bus della Paulo Travels), la vita scorre con una naturalezza antica: tutto lascia a intendere che i fondamentali dell’esistenza non abbiano subito grandissime trasformazioni nei secoli. Vista col binocolo, a molti apparirà come miseria, ma quando ci sei in mezzo non sono davvero molte le cose che ti mancano del nostro complicatissimo sistema di bisogni. Ciabatte, costume, maglietta, due banane, un piatto di riso e verdure, un asse di legno con materassino su cui riposarsi e un motorino per spostarsi: quello che serve non va molto oltre a questo breve elenco, e in pochi giorni i timori post-coloniali che ti portavi dentro scompaiono e lasciano spazio a una pacifica convivenza con i locali – affabili, pigri e allegri quanto te. Il sole scandisce la giornata senza fantasia, sorgendo con tutta calma (e altrettanta ne hanno gli indiani), impedendo le attività e gli spostamenti nelle ore di massimo fulgore, quindi scendendo repentinamente e invitando gli umani a ritirarsi – in India la notte è il momento di altre creature. E non è tutto: prima di farsi venire in mente i contro di questo lifestyle (e ovviamente ce ne sono: basta ammalarsi e verranno fuori come funghi) si sappia che nell’India del Sud si mangia benissimo ovunque e, cosa più importante, il ritmo lasso e sornione si accompagna a una solidarietà diffusa, anzi a qualcosa che probabilmente noi chiamiamo, con un alto grado di sofisticazione, solidarietà – ma che altrove è solo il normale e addirittura logico modo di relazionarsi tra bipedi. Il mito del buon selvaggio duro a morire? Lo chiedo sulla spiaggia di Gokarna a un ragazzo indiano con cui ho fatto amicizia mentre cerco di ricordarmi gli accordi di un pezzo di Neil Young: mi dice che ama il suo Paese e che ancora deve visitarlo tutto, poi mi cerca su Internet (che, nonostante la giungla, arriva forte e chiaro) per chiedermi l’amicizia, e, in un inglese migliore di quello di molti miei coetanei in Italia, mi chiede quanto voglio per vendergli il mio iPhone 5. Gli spiego che ha la batteria che dura mezzo pomeriggio e che il suo smartphone indiano da 50 euro non ha davvero nulla da invidiare. Ci crede poco, come ci credevo poco io quando comprai il mio. Lo saluto, faccio per tornare alla mia capanna e scopro di avere di fianco un vitello. Altrove mi stupirei, ma qui i bovini fanno parte della vita balneare: sono sacri e portano fortuna come da noi calpestare una cacca (forse un rimasuglio di quando erano sacri anche per noi). Lo guardo: sembra un cane magro e docile, il primo impulso è quello della carezza – non dell’arrosto. Si gira, e corre verso la madre che è letteralmente sotto l’ombrellone. Si allontanano nel tramonto, tranquilli come se avessero capito il segreto per restare lontani dalla città.

Mettendo per un attimo da parte l’annoso problema del lavoro e tutte le problematiche che lo riguardano, mi chiedo spesso cosa mi serva davvero per vivere. Semplificando, mi dico cibo, acqua, un tetto per quando piove, vestiti e coperte per quando fa freddo. Oltre, entriamo in una zona grigia dove le inclinazioni personali la fanno da padrone – e ciò che per uno è indispensabile per l’altro è superfluo, che si parli di bei vestiti, sigarette, accesso a internet, shampoo, libri o un letto comodo. Stare nella giungla, o più prosaicamente nell’India rurale, è un ottimo modo per rendersi conto cosa sia per noi costitutivo e cosa accessorio. Dalla nostra grassa Europa, ci affacciamo sul resto del mondo chiedendoci come facciano tanti sfortunati a tirare avanti. Nel contempo, incolonnati in tangenziale per il quinto giorno consecutivo, veniamo sfiorati da analoghi dubbi su come stiamo passando il tempo su questo pianeta. Nelle campagne del Karnataka, lo sfaccettato stato dell’India sud-occidentale che ho esplorato per due settimane (anche grazie ai temibili bus della Paulo Travels), la vita scorre con una naturalezza antica: tutto lascia a intendere che i fondamentali dell’esistenza non abbiano subito grandissime trasformazioni nei secoli. Vista col binocolo, a molti apparirà come miseria, ma quando ci sei in mezzo non sono davvero molte le cose che ti mancano del nostro complicatissimo sistema di bisogni. Ciabatte, costume, maglietta, due banane, un piatto di riso e verdure, un asse di legno con materassino su cui riposarsi e un motorino per spostarsi: quello che serve non va molto oltre a questo breve elenco, e in pochi giorni i timori post-coloniali che ti portavi dentro scompaiono e lasciano spazio a una pacifica convivenza con i locali – affabili, pigri e allegri quanto te. Il sole scandisce la giornata senza fantasia, sorgendo con tutta calma (e altrettanta ne hanno gli indiani), impedendo le attività e gli spostamenti nelle ore di massimo fulgore, quindi scendendo repentinamente e invitando gli umani a ritirarsi – in India la notte è il momento di altre creature. E non è tutto: prima di farsi venire in mente i contro di questo lifestyle (e ovviamente ce ne sono: basta ammalarsi e verranno fuori come funghi) si sappia che nell’India del Sud si mangia benissimo ovunque e, cosa più importante, il ritmo lasso e sornione si accompagna a una solidarietà diffusa, anzi a qualcosa che probabilmente noi chiamiamo, con un alto grado di sofisticazione, solidarietà – ma che altrove è solo il normale e addirittura logico modo di relazionarsi tra bipedi. Il mito del buon selvaggio duro a morire? Lo chiedo sulla spiaggia di Gokarna a un ragazzo indiano con cui ho fatto amicizia mentre cerco di ricordarmi gli accordi di un pezzo di Neil Young: mi dice che ama il suo Paese e che ancora deve visitarlo tutto, poi mi cerca su Internet (che, nonostante la giungla, arriva forte e chiaro) per chiedermi l’amicizia, e, in un inglese migliore di quello di molti miei coetanei in Italia, mi chiede quanto voglio per vendergli il mio iPhone 5. Gli spiego che ha la batteria che dura mezzo pomeriggio e che il suo smartphone indiano da 50 euro non ha davvero nulla da invidiare. Ci crede poco, come ci credevo poco io quando comprai il mio. Lo saluto, faccio per tornare alla mia capanna e scopro di avere di fianco un vitello. Altrove mi stupirei, ma qui i bovini fanno parte della vita balneare: sono sacri e portano fortuna come da noi calpestare una cacca (forse un rimasuglio di quando erano sacri anche per noi). Lo guardo: sembra un cane magro e docile, il primo impulso è quello della carezza – non dell’arrosto. Si gira, e corre verso la madre che è letteralmente sotto l’ombrellone. Si allontanano nel tramonto, tranquilli come se avessero capito il segreto per restare lontani dalla città.

Federico Dragogna fa tante cose, puoi leggerle quasi tutte su Instagram:

Per i chitarristi la spiaggia è stata un po’ come il servizio di leva: fino a qualche anno fa dovevi passarci per forza, qualcuno credeva avesse una qualche utilità e per altri era una perdita di tempo. Io prestai servizio sulla spiaggia di Viareggio e su un pratone di Cambridge nell’estate del 97, poi nulla più. Difatti sono pessimo: ogni volta che mi ci ritrovo, tabula rasa – di settantanni di musica leggera spesso metto in fila giusto uno strofa-ritornello. E se in Italia una chitarra oggi non attira più granché, nel Karnataka – dove al massimo gira qualche vecchio con l’harmonium – sembrava avessi un jetpack: nella foto qui sopra, un gruppo di gasatissimi di Mangalore si era appena accontentato di un pezzo di Neil Young – che giá da noi diciamo di certo non aizza le folle. Tre giorni più tardi peró avrei avuto un’intera carrozza di un lentissimo regionale Hosapete-Hubbli da soddisfare e sapevo di non potermela cavare con una ballata per lettori di Buscadero. Per di più, la mediazione tra culture non era così semplice: alla mia richiesta di un nome occidentale qualsiasi, Justin Bieber è stato l’unico su cui circa settanta maschi indiani si sono trovati d’accordo – e io a stento lo riconoscerei se mi ci ritrovassi chiuso in ascensore per un guasto. In ogni caso alla fine me la sono portata a casa, vuoi cercando di rifare alla chitarra singoli discofolk locali con ottocento melodie una dopo l’altra dopo averle intuite da un cellulare infilatomi in un orecchio, vuoi sforzando al massimo il mio finder interno per reperire hit che in qualche modo ci unissero. Tra i successi inaspettati, un’epica Umbrella di Rihanna cantata con testo inventato (da tutti, ognuno a modo suo), una Johnny B.Goode direttamente dal futuro e una grande conferma – Bob Marley, che più di Jagger e baronetti assortiti si mangia frontiere e continenti con almeno tre singoli nella top ten del genere umano. Tra l’altro, che bello quando si pensava ancora alla musica come a una sorta di linguaggio per capirsi quando le lingue non funzionano più. Sarebbe da riprovarci, sarebbe.

Non amo gli sport estremi o quelle cose in cui la tua vita dipende da chi ha fatto un nodo a qualcosa. Ho provato il cinema 3D con gli occhialini, l’imbuto dell’Aquafan, il veliero del luna park dell’Idroscalo e un emiliano che voleva farci sentire la sua auto truccata. Tutti sommati non fanno neanche la metà di uno sleeper bus indiano della Paulo Travels (che scopro già nota in rete per le sue qualità). Il nome “sleeper bus” è interessante di per sé, dato che dormire è la cosa più insolita che vi ritroverete a fare a bordo (la più comune è pregare). L’alloggio è in pratiche cuccette (vedi foto) – completamente cieche in modo da lasciarti il dubbio che sia uno di quei vecchi simulatori di rally, carissimi e brevissimi, che incontravi alle fiere di paese. Quando parte il gioco, cioè l’autobus, la sensazione è che ci siano solo i cerchioni e il conducente vada il più veloce possibile proprio per andare a comprare delle vere gomme. È notte e i gommisti sono chiusi ma lui supera qualsiasi cosa abbia davanti nonostante la stazza del mezzo e le sue condizioni. Anzi non lui, loro: gli autisti sono due o tre, e si danno il cambio per non scendere mai sotto le 88 miglia orarie. In breve: nove ore di solo audio tenendosi letteralmente a qualsiasi appiglio la cuccetta offra per non volare via. Fuori dal tuo simulatore c’è il traffico indiano, che di notte come di giorno è un prodigio di anarchia e funzionalità: se non ci sei nel mezzo sembra di vedere un video degli Ok Go, se ne fai parte, ad ogni sorpasso fai un veloce bilancio della tua vita e saluti mentalmente chi ti è caro.

La mia sindrome da scoiattolo accumulatore, responsabile dell’enorme collezione di dvd che mi invade casa e che presto varrà dieci euro, non mi impedisce di gioire quando posso di alloggi semplici e funzionali. Le capanne immerse nella giungla alle spalle delle spiagge più isolate del Karnataka ne sono un limpido esempio – e sono anche bellissime. Diverse nella fattura, all’interno ridispongono gli stessi pochi elementi: la mia preferita offriva un piano rialzato ricoperto da un sottile ma ampio materasso sovrastato da una zanzariera, un complemento d’arredo che vorrei importare in Italia quanto prima. Qui è ovviamente un elemento prezioso prima che elegante, dato che nella giungla la quantità di cose animate che possono entrarti nel letto (altrimenti detta biodiversità) è notevole. Nelle notti indiane ho salutato di persona scolopendre giganti, blatte familiari, ragni di tutte le misure e pelosità, rane da doccia e ovviamente zanzare – più tonte e meno stealth di quelle milanesi ma pur sempre odiose. Nella città sacra di Hampi, lungo le risaie, la sistemazione leggermente più hardcore che vedete nella foto, con una soluzione di piano rialzato che potrebbe forse sedurre qualcuno alla design week ma che di sicuro non ha sedotto la mia schiena. Per di più la zanzariera aveva diversi buchi, da me tappati alla Mac Gyver con delle cartine lunghe. La lezione che ne traggo tornando a Milano è: forse un giorno potró fare un letto coi miei dvd.

Federico Dragogna fa tante cose, puoi leggerle quasi tutte su Instagram: