La narrazione Risorgimentale
vuole la cotoletta milanese prima inter pares e comunque antecedente
alla Wiener Schnitzel, la sua omonima, omologa, identica versione austriaca.

Il motivo è sicuramente legato alla dominazione austro-ungarica che Milano porta ancora addosso nella toponomastica (zona Cinque Giornate e limitrofe). È un pezzo di storia del Paese e fa parte di un processo lungo di nazioni e nazionalismi che nell’800 ha portato all’unità d’Italia.
Quindi non solo di cotolette si parla, in generale il cibo è sempre bene o male simbolo, metafora, racconto di qualcosa d’altro.
Lavoro di filologi, enogastronomi, cronachisti e velleitari nazionalisti nel tempo è stato però quello di cercare documenti che attestassero la patria potestà o almeno nascita della sublime fettina di vitello (con osso) impanata col pane e fritta (nel burro).

Un giovane Pietro Verri

Il maresciallo Josef Radetzky

Quello che più o meno si sa e si dice è che già Pietro Verri, milanesissimo, nella sua Storia di Milano citando un documento del 1148, avesse scoperto che in un pranzo dai monaci di Sant’Ambrogio ci si era cibati di lombolos cum panitio. Ma sarebbe stato smentito recentemente dallo studioso di cucina Frigerio Pierangelo che sostiene il panitio non essere del pangrattato ma più probabilmente della polenta.

Lato Austria invece si attesta che niente popo di meno che il maresciallo Josef Radetzky avrebbe parlato in una lettera al suo Imperatore, Franz Joseph d’Asburgo-Lorena, di questa “carne avvolta nel pane” la cui ricetta però avrebbe conosciuto grazie al matrimonio con una nobile friulana, Francesca Strassoldo.

“Storia di Milano” del conte Pietro Verri che puoi leggere qui integralmente. In questa. edizione trovi il “lombolos” a pagina 85.

C’è addirittura una terza ipotesi, che nessuno vuole considerare, che fa capo ovviamente ai francesi. La ricetta appare in un testo del 1749, La science du maitre d’hotel, che parla proprio di carne impanata e fritta e secondo alcuni sarebbe arrivata a Milano attraverso la dominazione napoleonica e il trait d’union sarebbe Maria Luigia, figlia dell’arciduca austriaco Francesco e moglie di Napoleone stesso.
Tutto questo ci dice semplicemente che tempo addietro si circolava molto di corte in corte, di dominio in dominio, per ragioni di mercato, di ingaggi artistici e di servizio (quanti cuochi, quante maestranze, quanti “lavoratori dello spettacolo” in quegli anni hanno girato l’Europa) e che la situazione politica cambiava frequentemente, mischiando, aggiungendo, aggiustando, devastando quello che trovava.

La cottura del carrè di vitello.

Per noi, se vi interessa, la migliore cotoletta di Milano si mangia alla Trattoria nel Nuovo Macello, dallo chef Giovanni Traversone. Alta, con l’osso, la carne (carrè di vitello) ha la giusta frollatura, rimane rosa e succulenta. E non serve il limone.

Altra storia la michetta, tipo di pane “soffiato”, senza mollica, che sembra proprio essere un prestito o meglio un adattamento del kaisersemmel austriaco, da cui prende la forma di rosa ma che viene svuotato della parte interna per lasciarlo fragrante anche dopo giorni, poichè il clima umido della pianura padana l’avrebbe reso gommoso.

Ma appunto è un’altra storia.

Dalla Cucina