Il mondo della Comunicazione sta cambiando, bisogna ammetterlo. Di certo ci sono alcune dinamiche che restano invariate: i saponi liquidi per le lavatrici rimangono ancora colorati di bianco per trasmettere sensazione di pulito, e il verde è il codice cromatico della sostenibilità universalmente condiviso. Anche se pure questi dogmi radicati nei consumatori da generazioni oramai possono cambiare, e in alcuni casi sta succedendo sotto ai nostri occhi.
Nonostante infatti quello che dicono gli studi del secolo scorso portati avanti dai reparti di marketing sulla psicologia delle masse, non esistono strategie assolute per vendere, figuriamoci per comunicare senza avere necessariamente uno scopo. E ce ne stiamo accorgendo collettivamente solo adesso, che siamo entrati in una realtà ibridata con il digitale: una realtà dove i tempi, le gerarchie, gli obiettivi sono diversi. Come fossimo approdati in un nuovo pianeta e ci dovessimo abituare ad una nuova gravità, una nuova atmosfera, una nuova biologia. Certo, direte voi, Internet non è stato inventato ieri, i Social Network non sono una novità. MySpace quest’anno compie vent’anni (Facebook invece l’anno prossimo), sicuramente ci si sarà abituati a questa condizione Phygital. Eppure stiamo iniziando adesso a regolamentare legislativamente i Social Network, dopo paradossi come il ban di Donald Trump da Twitter o scandali in stile Facebook-Cambridge Analytica. Solo perché si vive in un determinato contesto infatti non vuol dire che lo si sia metabolizzato, e i cambiamenti che ha portato il digitale nella comunicazione (e non solo) sono ancora ben lontani dall’essere interiorizzati dalla società. Come dice lo psicologo Ali Mattu nella docuserie Netflix “La mente in poche parole” (S1 E3, “Ansia”):
«I feel like we have created the automobile. The automobile has gained complete penetration in society and everyone’s driving around, and we haven’t invented the safety belt yet»
«[È come se avessimo creato l’automobile. L’automobile si è completamente integrata nella società e tutti guidano, ma non abbiamo ancora inventato la cintura di sicurezza]»
Credo che questo paragone sia molto azzeccato con quello che stiamo vivendo culturalmente adesso: siamo alla guida di una nuova invenzione (o meglio, un insieme di invenzioni tecniche e innovazioni sociali) che ci può portare molto lontani, ma ancora non ne abbiamo capito le reali potenzialità, né ci siamo adeguatamente preparati ai possibili rischi che si porta con sé.
Sperando che mi abbiate concesso a questo punto il presupposto che la comunicazione sta cambiando, vorrei illustrarvi ora un paradosso che sta emergendo sempre più in questo settore. Ma andiamo con ordine: prima di tutto diamoci delle definizioni comuni, per essere sicuri di star parlando della stessa cosa (dal momento che queste trasformazioni in atto stanno cambiando le professioni e le terminologie a loro riferite). Cos’è il Branding? Senza scomodare etimologie norrene, partirei dalla definizione dell’AMA (American Marketing Association) di “brand”:
«A brand is a name, term, design, symbol or any other feature that identifies one seller’s goods or service as distinct from those of other sellers»
«[Un brand è un nome, un termine, un design, un simbolo o qualsiasi altra caratteristica che identifica i beni o i servizi di un venditore distinti da quelli di altri venditor]i»
Viene da sé che quindi con “Branding” si intende tutto quell’insieme di pratiche che servono a distinguere le varie marche. Man mano che queste pratiche sono state approfondite per necessità economiche, in modo da migliorare la riconoscibilità delle aziende, siamo andati sempre più ad antropomorfizzare i brand. Viene infatti introdotto il termine Brand Identity, ad indicare tutti quegli elementi distintivi che abbiamo appena visto caratterizzare un brand. Ma qua non si sta parlando più solamente di componenti visive o di scelte di posizionamento di prodotti. Qua stiamo parlando di identità, con tutto il peso che questa parola si porta dietro.
Siamo andati oltre l’individuare una cifra stilistica riconoscibile, o un business model in linea con i valori corporate. Le aziende infatti, per rendere il più efficace possibile la propria comunicazione hanno iniziato sempre più a definire non solo la propria identità visuale, ma a costruirsi una vera e propria personalità, aiutando noi consumatori così ad empatizzare e creare un legame con loro.
Volete sapere fino a che punto viene studiata la psicologia del brand?
Vi basti pensare che esiste una pratica, l’Archetypal Branding, che consiste nell’utilizzare i 12 archetipi junghiani per delineare il ruolo dell’azienda nella società. Proprio così: si utilizzano modelli psicologici e terminologie di settori legati all’essere umano, alla sua storia, per parlare di quello che il brand rappresenta (o vuole rappresentare). Ovviamente non è un caso che questo fenomeno sia accresciuto sempre più man mano che arrivavano le tecnologie digitali. Internet prima, e i Social Network poi, hanno di fatto ribaltato l’approccio comunicativo, passando da top-down a bottom-up; ovvero si è passati da una comunicazione “uno-a-molti” ad una comunicazione originaria “dal basso”. Se ci pensate i media prima di Internet erano tutti “dall’alto verso il basso”: la televisione, la radio, i giornali. Erano tutti canali monodirezionali, che mettevano i consumatori in condizione di assorbire passivamente tutto ciò che chi si poteva permettere di comunicare gli voleva rifilare. La democratizzazione portata dal Web invece ha dato a tutti la possibilità di dire la propria, ha dato a tutte le persone un microfono. Così si è instaurato un dialogo: le aziende non possono più permettersi di non ascoltare i consumatori, pena la shitstorm.
I Social poi hanno ulteriormente rinforzato questa democratizzazione (non necessariamente in positivo, con fenomeni controversi come complottismi e populismi): su una piattaforma social il brand non può neanche proteggersi dietro ad un sito ben fatto, è costretto a comunicare con gli stessi strumenti di un qualunque altro utente. Così si personificano sempre più, andando in tutto e per tutto ad esprimersi come se fossero una persona; non hanno più solo dei valori, ma una personalità, un tono di voce, un soprannome (pensate ai nickname di alcune realtà come la Treccani, che diventa @treccanigram su Instagram), ecc.
E così, mentre le aziende diventano persone, assistiamo anche ad un altro fenomeno, che crea il paradosso del cane che si morde la coda. Sta cambiando infatti non solo il modo di fare Branding per i brand ma anche per le persone.
Il Personal Branding, lo studio della comunicazione di un individuo, di un personaggio pubblico, sta andando proprio nella direzione opposta rispetto a quello che abbiamo appena visto.
Perché dal momento che tutti possono essere personaggi pubblici, chi lo vuole essere consapevolmente è costretto ad adottare tecniche tipiche del Corporate Branding classico, costruendosi una vera e propria Visual Identity. Per emergere oggigiorno non basta comunicare, ma bisogna farlo efficacemente: assistiamo in questo modo a brand che fanno meme e contenuti che sembrano amatoriali, mentre dall’altro lato le persone adottano per se stesse sistemi di identità visive sempre più professionali, con loghi, font, colori definiti.
Ci sarebbe ancora molto da dire, a maggior ragione se uno volesse dare la propria opinione, fare previsioni su cosa succederà, dispensare consigli ad aziende e persone, proporsi per consulenze ad hoc. Ma non è questo il luogo, e per quello che mi riguarda non è questo neanche lo scopo. L’obiettivo è piuttosto quello di piantare il semino di una riflessione: darvi qualche spunto, offrirvi non una soluzione, ma una questione. Anche perché le regole dei giochi nella democrazia digitale si fanno insieme, e direi che è arrivato il momento di prenderne consapevolezza collettivamente.
Federico Cordelli
Classe 1998, è un giovane designer della comunicazione. Assistente professore presso il Politecnico di Milano, dove ha studiato, nel mentre lavora da freelancer collaborando con studi, agenzie e realtà locali.